L’introduzione del colore nel contesto delle produzioni italiane in lungometraggio, che viene fatta normalmente coincidere con l’uscita di Totò a colori (1952) di Steno, avviene in un periodo segnato da trasformazioni radicali, destinate a condizionare il sistema produttivo nazionale nei decenni a venire. Sul fronte interno le due leggi varate da Andreotti nel 1949 legano, attraverso un complesso meccanismo di incentivi, lo sviluppo dell’industria cinematografica italiana agli apparati statali. Su quello esterno il processo di internazionalizzazione assume la forma di rapporti sempre più stretti e frequenti con partner europei e statunitensi: tra il 1949 e il 1958 l’Italia stipula infatti accordi di coproduzione con Francia, Spagna, Repubblica Federale Tedesca e Jugoslavia, mentre le lavorazioni per conto di – o in compartecipazione con – studios hollywoodiani, che avevano preso il via alla fine degli anni ’40, ricevono un nuovo impulso nel 1951 in seguito agli accordi ANICA-MPAA, quando le compagnie americane ottengono la possibilità di reinvestire in produzioni italiane i proventi congelati per non danneggiare la bilancia dei pagamenti. Il concomitante ingresso del colore nelle produzioni italiane e il conflitto che si innesca tra tecnologie di differente provenienza e ambizioni – si va dagli europei Ferraniacolor, Gevacolor e Pathécolor agli statunitensi Eastmancolor e Technicolor – va quindi letto alla luce di questi stimoli esterni e dell’evoluzione del mercato interno, nonché nel contesto più ampio di un sistema in cui il mantenimento di consistenti riserve di valuta estera pregiata è considerato essenziale alla stabilità economica del Paese. In un capitolo di un recente volume dedicato al colore nel contesto italiano, Pierotti mette in relazione la scelta di un determinato standard con le tipologie produttive delineate in un celebre manuale di produzione cinematografica di metà anni ‘50: il Technicolor, lo standard più affidabile e dai migliori risultati sul piano spettacolare, emerge come la tecnologia preferenziale nel caso di produzioni a carattere internazionale per ambizioni produttive e/o per modi di produzione di carattere transnazionale, nonostante il complicato iter imposto alle compagnie italiane prima dell’apertura di uno stabilimento a Roma nel 1958. Infatti, come evidenzia ancora Pierotti, chi intenda avvalersi di questo procedimento è costretto a importare dall’estero i macchinari necessari a eseguire le riprese col sistema multi-pack a tre negativi e ad assumere consulenti del colore indicati dalla stessa società, sostenendo così ingenti spese accessorie e soprattutto dovendosi confrontare con gli apparati statali preposti alla concessione delle necessarie autorizzazioni. In questo contributo tentiamo di ricostruire, attraverso lo studio di alcune casistiche, l'impatto dello standard Technicolor su tali flussi di produzione. Come nota ancora Pierotti il ricorso al colore genera, oltre ai “costi tecnologici direttamente connessi alla novità, facilmente quantificabili,” anche “costi di altra natura, sia di ordine materiale che immateriale, assai più complessi da determinare”. Questi ultimi costituiscono l'oggetto specifico di questo articolo, nel quale intendiamo portare alla luce conflitti che coinvolgono a diverso titoli i diversi portatori di interesse del panorama industriale italiano: produttori italiani, coproduttori stranieri, associazioni di categoria e le diverse anime della burocrazia statale.

Il colore dei soldi. Note su alcuni film in Technicolor (1952-1958)

francesco di chiara;
2017-01-01

Abstract

L’introduzione del colore nel contesto delle produzioni italiane in lungometraggio, che viene fatta normalmente coincidere con l’uscita di Totò a colori (1952) di Steno, avviene in un periodo segnato da trasformazioni radicali, destinate a condizionare il sistema produttivo nazionale nei decenni a venire. Sul fronte interno le due leggi varate da Andreotti nel 1949 legano, attraverso un complesso meccanismo di incentivi, lo sviluppo dell’industria cinematografica italiana agli apparati statali. Su quello esterno il processo di internazionalizzazione assume la forma di rapporti sempre più stretti e frequenti con partner europei e statunitensi: tra il 1949 e il 1958 l’Italia stipula infatti accordi di coproduzione con Francia, Spagna, Repubblica Federale Tedesca e Jugoslavia, mentre le lavorazioni per conto di – o in compartecipazione con – studios hollywoodiani, che avevano preso il via alla fine degli anni ’40, ricevono un nuovo impulso nel 1951 in seguito agli accordi ANICA-MPAA, quando le compagnie americane ottengono la possibilità di reinvestire in produzioni italiane i proventi congelati per non danneggiare la bilancia dei pagamenti. Il concomitante ingresso del colore nelle produzioni italiane e il conflitto che si innesca tra tecnologie di differente provenienza e ambizioni – si va dagli europei Ferraniacolor, Gevacolor e Pathécolor agli statunitensi Eastmancolor e Technicolor – va quindi letto alla luce di questi stimoli esterni e dell’evoluzione del mercato interno, nonché nel contesto più ampio di un sistema in cui il mantenimento di consistenti riserve di valuta estera pregiata è considerato essenziale alla stabilità economica del Paese. In un capitolo di un recente volume dedicato al colore nel contesto italiano, Pierotti mette in relazione la scelta di un determinato standard con le tipologie produttive delineate in un celebre manuale di produzione cinematografica di metà anni ‘50: il Technicolor, lo standard più affidabile e dai migliori risultati sul piano spettacolare, emerge come la tecnologia preferenziale nel caso di produzioni a carattere internazionale per ambizioni produttive e/o per modi di produzione di carattere transnazionale, nonostante il complicato iter imposto alle compagnie italiane prima dell’apertura di uno stabilimento a Roma nel 1958. Infatti, come evidenzia ancora Pierotti, chi intenda avvalersi di questo procedimento è costretto a importare dall’estero i macchinari necessari a eseguire le riprese col sistema multi-pack a tre negativi e ad assumere consulenti del colore indicati dalla stessa società, sostenendo così ingenti spese accessorie e soprattutto dovendosi confrontare con gli apparati statali preposti alla concessione delle necessarie autorizzazioni. In questo contributo tentiamo di ricostruire, attraverso lo studio di alcune casistiche, l'impatto dello standard Technicolor su tali flussi di produzione. Come nota ancora Pierotti il ricorso al colore genera, oltre ai “costi tecnologici direttamente connessi alla novità, facilmente quantificabili,” anche “costi di altra natura, sia di ordine materiale che immateriale, assai più complessi da determinare”. Questi ultimi costituiscono l'oggetto specifico di questo articolo, nel quale intendiamo portare alla luce conflitti che coinvolgono a diverso titoli i diversi portatori di interesse del panorama industriale italiano: produttori italiani, coproduttori stranieri, associazioni di categoria e le diverse anime della burocrazia statale.
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